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L’era dei Polo, dei Colombo e dei Vespucci è oramai trascorsa. Non troviamo più, tra gli italiani, arditi viaggiatori che attraverso sconosciuti e vasti mari vadano in traccia di nuovi mondi.
Nessuno più si avventura fuori dai recinti, mentali e fisici, in cui è stato educato, nessuno marca più il passo fuori tracciato e il mondo globalizzato ha finito per ridurre la realtà a un universo grande quanto lo schermo di uno smartphone.
Magari ci si facessero innanzi viaggiatori eruditi che, aggirandosi per tutti i sentieri del globo, ne osservassero diligentemente lo stato della letteratura e delle scienze, le biblioteche, gli archivi, i musei, e ce ne recassero notizia, come se fossimo anche noi lì con loro. E invece no! Il viaggiatore si è fatto goffo e distratto, perennemente annoiato e appagato solo dal gran tritacarne, in forma di agenzie di viaggio o villaggio turistico, che gli smembra un mondo che altrimenti non riuscirebbe a capire e ancor meno a digerire. Il viaggiatore si è trasformato in turista e ora non sa più osservare.
Per fortuna però c’è chi osserva lui. C’è chi può raccontare il mondo desumendolo dal volto di chi ha attorno, raccontare un mondo attraverso il viso degli altri, senza mai spostare l’attenzione su ciò che vi è attorno, solo riferendo della faccia che indossano gli altri.
Le maschere del maestro Antonio Balbi assolvono a questa funzione: raccontare la parte per il tutto. Ma qual’è il mondo rivelato nelle sue tele? In vero i suoi lavori ci portano all’arcipelago di Ikitiki. Si tratta di un labirinto di isole che non appartiene al mondo finito e contingente in cui viviamo, sono distese di terra abbracciate da mari che non potrete trovare nelle carte nautiche perché, come l’Arcadia, anche Ikitiki è un luogo dell’anima.
Ikitichi è dunque una suggestione partorita dalla visionarietà di un artista, è una costellazione che vive fuori dal sistema di cose in cui consumiamo le nostre vite, e quell’irriducibile Altrove che dà senso al nostro mondo perché di questa nostra realtà rappresenta la migliore sintesi.
Secondo Platone, al di là delle nuvole, si apriva il mondo delle idee. Il suo iperuranio era un rinvio a un piano metafisico di realtà, qualcosa che ancora ci fa dire che “lì è Luogo”, lì si trova la casa di ogni idea così come concepita dall’animo umano nel suo momento più alto.
L’iperuranio del maestro Balbi si chiama Ikitiki e i lavori che lo descrivono sono un invito ad entrare nella tela, per scoprire, nello spessore della materia che la nutre e che ci nutre, quella parte intima, insita dentro ognuno di noi, che è lì specchiata e pronta per essere vissuta da chiunque ne abbia attitudine.
Se è vero che esiste un mondo fisico, questo, di cui tutti facciamo esperienza ogni giorno, allora il maestro Balbi ci suggerisce che questo spazio non basta. Questo mondo non va bene, che ne venga un altro, come il titolo del bel testo del premio Nobel Saramago. Ogni narrazione che rinunci a essere un’altalena tra il reale e il metafisico, rinuncia alla ricerca della verità e perviene a una dimensione piatta, priva di significato, una semplice pagina di un bilancio societario che della passione e delle emozioni di chi in quella società vi lavora, non sa dire nulla e tutto tace, tenendo al buio e quasi soffocando quella fiammella di luce che in molti ancora alberga.
Ma per comprendere ciò che il balbismo ci vuole raccontare, occorre pensare che il linguaggio visionario è un linguaggio oramai perduto, come cifre indecifrabili, come quelle lettere presenti in tutte le tele del maestro, che sono un piano narrativo solo metafisicamente intellegibile.
Ma è al contempo un linguaggio universale che si nasconde sotto tutto ciò che noi sogniamo ogni notte. È una forma invisibile che appare ogni volta che la visione di immagini scorre libera dentro di noi, senza curarsi della forma e del significato. E’ ciò che emerge dal trance, dalla contemplazione, dal mito e dalla follia. Questa antica immagine-lingua, altrimenti dimenticata, è ora nuovamente parlata e insegnata nelle tele del maestro di Roccagloriosa.
Le maschere hanno uno spazio centrale in questa produzione. Ikitiki è abitata da questi finti volti, qual’è il significato di maschera, da queste forme non vere che sono le uniche, per paradosso, capaci di condurci alla conoscenza della verità. Non si può capire il sole guardandolo a occhio nudo, perché non solo non si vede nulla, ma si finisce per non vedere mai più nulla, per quella sua luce che sembra creata per persone più forti e perfette di noi.
Allora andiamo a scoprire l’origine delle maschere, partendo dal tempo dei romani, quando la parola maschera non era usata e al suo posto veniva impiegato il sostantivo persona.
“I latini dissero persona la maschera di legno portata sempre sulla scena dagli attori nei teatri dell’antica Grecia e dell’Italia, nella quale i tratti del viso erano esagerati, perché meglio potessero essere rilevati dagli spettatori e la bocca era fatta in modo da rafforzare il suono della voce (ut personaret): cosa resa necessaria dalla straordinaria vastità degli antichi teatri. Questo vocabolo venne poi applicato ad esprimere l’individuo rappresentato sulla scena che ora diciamo personaggio; poi (nel qual senso persevera tuttora) un uomo qualsiasi, e successivamente la sua corporatura o il complesso delle sue qualità”.
Ma Ikitiki non è il nostro mondo e, seppur tutte le argomentazioni fin qui condotte hanno significato anche di là, occorre inoltrarsi ancora un po’ più in là per capire la vera funzione di queste maschere. Dietro ad esse non c’è nessuno. Nessuno le indossa, semplicemente le maschere di Ikitiki esistono e si manifestano dentro le tele come gli specchi dietro le cornici. Guardarvi dentro significa osservare con forma umana tutto l’arcipelago dell’iperuranio balbista. La maschera non è altro che un’istantanea di quel universo onirico, è tutto quello che a Ikitiki esiste in un dato momento ritratto antropomorficamente perché possa essere da noi compreso. Una parte per il tutto, come si è già detto. Un tutto capace di esprimere in uno spazio fisico un prodotto dello spirito, che non ha sostanza e che esiste solo per la capacità di un artista di sottrarlo al mondo delle idee per portarlo in mostra a chi voglia confrontare la sua maschera con quella dentro alla tela.
Per meglio capire, occorre rivolgerci a quel tempo dell’anno in cui la nostra comunità festeggia il carnevale. Ikitiki non è un’eterna carnevalata, ma del carnevale ha i colori e il significato profondo. E’ quel momento dell'anno in cui ci si impegna in un gioco di dissoluzione identitaria. E’ quel momento dell’anno in cui ci è concesso buttare per aria i nostri difetti e problemi per vederli cadere sotto forma di coriandoli. E’ quel momento che a Ikiticki dura tutto l’anno è che permette a quel mondo di essere la sintesi e la sublimazione del tempo in cui noi viviamo.


Giovanni Rodini